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Ilva di Taranto, cosa c’è da salvare?

Ilva di Taranto, cosa c’è da salvare?

Da pugliese, tutte le volte, che sento citare l’Ilva di Taranto (oggi divisa tra ArcelorMittal e Invitalia), mi si stringe il cuore. Oggi si parla di salvataggio economico, ma da sempre il problema più grave è un altro. Non entro nel merito della questione economico-occupazionale, grave ma non credo quanto quella della situazione sanitaria persistente da decenni.

I dati sulle morti legate alle emissioni dell’acciaieria Ilva di Taranto sono controversi e non definitivi, ma statisticamente rappresentativi. Tuttavia, le stime disponibili suggeriscono che il numero di morti premature potrebbe essere significativo.

Un rapporto del 2022 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), condotto su richiesta della Regione Puglia, ha stimato che tra il 2000 e il 2010, nell’area a ridosso dello stabilimento di Taranto, ci sono state almeno 270 morti premature. Il range stimato è di 27-43 morti all’anno, per un totale quindi di 2.700-4.300 morti.

l rapporto dell’OMS ha rilevato che le cause di morte più comuni legate alle emissioni dell’Ilva sono le malattie cardiovascolari, le malattie respiratorie e il cancro.
Un altro rapporto, pubblicato nel 2021 dal Progetto Sentieri dell’Istituto Superiore di Sanità, ha rilevato che nell’area di Taranto, rispetto alla media regionale, si registra un aumento dei casi di malattie respiratorie, cardiovascolari e oncologiche. Il rapporto ha stimato che tra il 2002 e il 2015, nell’area di Taranto, si sono registrati 600 bambini malformati e 173 casi di tumori maligni in età pediatrica.

I dati disponibili suggeriscono che le emissioni dell’acciaieria Ilva di Taranto potrebbero essere responsabili di un numero significativo di morti premature. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per confermare queste stime e per identificare le cause specifiche di morte. Ma più che sufficienti per definirne statisticamente un dramma sociale prima, del lavoro poi.

L’Ilva di Taranto è un faro oscuro, un monito che illumina il prezzo terribile che la società paga quando l’ambizione industriale oscura il valore della vita umana.

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